Mostri digitali

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Marotta & Russo è un duo di artisti concettuali, intellettuali, che risultano estremamente concreti e visionari allo stesso tempo. Concentrano il loro lavoro sui segni che trovano nel mondo, i quali vengono manipolati e restituiti all’osservatore secondo la loro personale visione. Il fulcro della loro arte è la cultura digitale, che viene indagata secondo diversi linguaggi artistici dal video all’installazione, dalla fotografia alla costruzione di pannelli su stampa digitale. Marotta & Russo riprendono oggetti e soggetti simbolo della nostra società, li rielaborano e li trasformano da materiale reale ad esperienza virtuale. Per entrare con più fluidità nel loro mondo, abbiamo posto loro qualche domanda.

Voi definite il vostro lavoro artistico “umanesimo digitale”: potete spiegarci meglio questo concetto?
Questa definizione autoattribuita è centrale nella nostra ricerca artistica e va ad indagare due diversi aspetti. È in primis un richiamo alla tradizione culturale italiana risalente all’epoca dell’umanesimo, momento in cui arte e tecnologia erano viste come un’unicum indissolubile. In secondo luogo ci piace pensare che il periodo storico in cui stiamo vivendo possa essere visto come un neo-umanesimo, un’era in cui arte e tecnologia sorgono insieme nuovamente, ma tramite il digitale, invadendo la socialità di nuovi strumenti tecnologici.

Come vi approcciate al mondo digitale?
Noi siamo un duo, abbiamo fatto questa scelta da giovani perché accomunati da fraterna amicizia e spirito di condivisione delle prospettive professionali ed artistiche: sentivamo la necessità di uscire dall’asfissia creativa di quell’epoca (anni ’80 circa), per andare ad indagare nuovi orizzonti artistici. Ci siamo predisposti a toccare a fondo l’ambiente digitale, persuasi a mettere in gioco tutto di noi in ogni scelta. Per noi in particolare, questa ossessione della diretta esperienza delle cose digitalmente estese, influenza il nostro stato mentale, emozionale e fisico tanto da determinare una prima rielaborazione dei segni del network del mondo.

Nella vostra mostra Monster ID viene indagato ampiamente il concetto di identità digitale: come può internet influenzarci tanto da arrivare alla considerazione “esisto se ricevo un feedback”?
Questa esposizione, attualmente in corso alla Galleria “White Light Art” a Milano, vuole analizzare il concetto di identità che si basa sui feedback che riceviamo quotidianamente dai social network, dalle caselle di posta e dalle varie piattaforme virtuali. ID è la contrazione tipicamente tecnologica di identity, un’identità che viene contratta, riformattata e direttamente collegata ad un feedback che diamo e riceviamo all’interno del mondo informatico. Monster viene dal latino Monstrum, che indica contemporaneamente qualcosa di tremendo ma anche un qualcosa che si mostra e quindi ci può apparire orribile e deforme semplicemente perché ha dei lineamenti nuovi che non sappiamo riconoscere. Ed è qui la sfida. La mostra gioca con una serie di segni che abbiamo tutti di fronte agli occhi e che vengono riproposti con strani rispecchiamenti che di fatto fanno riaffiorare i lineamenti che sono sempre sotto il nostro naso ma che, palesandosi in altri contesti, non sempre riusciamo a leggere ed identificare.

C’è qualche aspetto della vostra ricerca che tocca l’argomento della percezione visiva?
La percezione è per noi il fatto centrale. Il termine focus, da noi sempre evocato, deriva dal design e qui si estende e sconfina nell’idea di concentrazione percettiva espressa per espandere il senso della capacità di visione. Il gioco della visione è centrale in moltissimi nostri lavori. La visione, per noi, è essenzialmente l’asciutta nudità dello sguardo. Lo sguardo punta, mira e ritaglia le immagini, è il presupposto morale che precede la necessità e la responsabilità di costruzione di un’immagine.