Quindici minuti di città.

COSA SIGNIFICA OGGI ‘VADO A FARE SHOPPING’? CHE COSA SI PUÒ FARE PER RIMANERE RILEVANTI DURANTE UN PERIODO DI CAMBIAMENTO COMPORTAMENTALE COME QUESTO?

“Whatever you think, think the opposite”, in italiano: “Qualunque cosa tu pensi, pensa l’opposto”. Ho usato questa frase mille volte per scatenare discussioni o semplicemente per impiantare il dubbio, una domanda nella testa dei miei alunni delle classi di marketing, e nei pensieri di alcuni manager molto sicuri di sé e di come dovessero andare le cose.

Credo sia una frase – e un modo di vedere il mondo – ben applicabile ai giorni che (purtroppo) stiamo passando. Il nostro scopo è di capire e discutere di retail, qui, di comprendere come e cosa l’idea di ‘retail’ debba includere per essere ancora rilevante nel tempo a venire, e per fare questo credo che sia necessario ‘pensare l’opposto’ e puntualizzare due cose, entrambe fondamentali: ‘retail’ è un concetto fondato su una comunicazione tra esseri umani che intendono scambiarsi beni e una qualche forma di controvalore per quei beni, e il secondo aspetto chiave è che ‘marketing’ è un’azione, è portare efficacemente un’azienda, un’organizzazione, un’idea su un mercato.

Provate a notare… retail, marketing, aziende, organizzazione, idee sono centrate, originate, disegnate, controllate e dedicate a esseri umani. Siamo al centro di tutto, e per capire che cosa debba essere il ‘retail marketing’ nel prossimo futuro dobbiamo sempre mettere al centro dell’analisi l’uomo, pulsioni e desideri, conscio e inconscio, aspirazioni e bisogni.

Ed è proprio qui che il cambiamento più grande e radicale è avvenuto, durante gli scorsi ventiquattro mesi. Siamo cambiati noi, siamo cambiati come consumatori, sono mutate le nostre priorità, per scelta o per necessità.

In Deconstruct abbiamo condotto ricerche e analizzato dati, e da ogni parte – magari con dettagli e numeri leggermente diversi – il messaggio è consistente: una buona metà dei consumatori, dei ‘clienti’, ha completamente rivisto le proprie priorità, quindi cambiando le proprie liste della spesa, ‘che cosa piace’ è stato sostituito da ‘che cosa serve’, e l’idea di ‘sicurezza’ è sempre più presente nelle scelte e nei comportamenti.

Così tanto che più della metà dei consumatori è pronto a cambiare un marchio se questo ha fatto qualcosa o si è dimostrato all’opposto dei valori di ogni singolo cliente, e non pochi, l’87%. E se si prende in considerazione che con la crescita forzata del digitale, specialmente per le transazioni commerciali (più dell’80% pensa che ‘comprare online’ sia migliore rispetto al canale ‘fisico’ tradizionale), allora forse è il caso di elaborare un pensiero più critico su cosa vuol dire ‘vado a fare shopping’ oggi, e che cosa si può fare per rimanere rilevanti durante un periodo di cambiamento comportamentale come questo.

Pensate che tutto questo non vi coinvolga, che non conti, che non impatti il vostro mercato, il vostro quotidiano, che il cambiamento non vi tocchi? Lo pensavano anche in Blockbuster, facevano spallucce in Kodak quando gli parlavano di digitale, erano felicemente distratti in Abercrombie e adesso annaspano. Il cambiamento è costante, quindi discutiamone. Intanto…

Come siamo abituati oggi? Disponibilità di qualsiasi cosa, da ovunque per ovunque, acquisti rapidi sulle ali di entusiasmo, ricerca online, recensioni e ‘influenza sociale’ – più piace agli altri, più piace anche a me, e chi sono io per dissentire? – e soddisfazione quasi immediata, senza sforzo, acquisti che arrivano sulla porta di casa o dove più ci piace.

“Massexclusivity” come mantra (un termine coniato da Trendwatching qualche tempo fa e ancora attualissimo), il consumatore che vuole un servizio personalizzato che in realtà gioca sulla massificazione del bisogno per suggerire ‘sartorialità’ quando invece è ‘industrialità’. E tutto avviene in ambiti urbani trasformati in giganteschi cartelloni pubblicitari oppure online, per chi le città le vede e vive solo per ‘interposto digitale’.

Ma, anche qui, il cambiamento. Se la pandemia ha cambiato noi e le nostre liste di priorità, ha anche cambiato – o suggerisce un cambiamento – nel modo in cui le città vengono viste e vissute. Quindici minuti, un classico ‘quarto d’ora’. Un’ipotesi. Questo è quanto ci era concesso come luci della ribalta da Wharol, e un quarto d’ora è la misura della nuova concezione di città, o meglio di ambito urbano. Suggerita dall’urbanista Carlos Moreno, ne hanno fatto manifesto elettorale il sindaco di Parigi Anne Hidalgo (rieletta), ed è entrata nei programmi nostrani di Gualtieri (eletto sindaco di Roma) e di Beppe Sala (anche lui rieletto sindaco a Milano).

Sostenibile, a misura d’uomo, ridotta negli spostamenti necessari per fruirne, in realtà è il disegno di una città policentrica, fatta di borghi più che di quartieri. Mi viene da pensare che – per dire – una Londra lo è, in realtà, da un po’, ogni ‘borough’ che ha il suo centro, la sua serie di servizi e la sua atmosfera da ‘ci conosciamo tutti da tempo’. In una città da quindici minuti tutto ha un senso fintantoché risponde alle necessità del circondario, ogni attività si sostiene con la rilevanza che ha per chi vive in prossimità, che diventa anche attore, agente del successo sia dell’attività che del circondario, sia della più vasta idea di ‘città da quindici minuti’.

Ora, se vogliamo, stiamo tornando alla ‘tribù’, dove tutti hanno un senso per tutti gli altri. Pensateci. Sto scrivendo questo pezzo agli inizi di dicembre 2021, siamo ancora lontani dalla fine della pandemia, sta per arrivare la ‘variante Omicron’ a – letteralmente – guastare le feste, e il nostro Paese è diviso tra vaccinati e ‘no vax’ – ciascuno con la sua dose e lista di buone ragioni. Non entro nel merito delle scelte, ma mi domando cosa sarebbe se vivessimo in una ‘città da 15 minuti’, dove tutti quelli che abbiamo intorno non sono a caso ma contano per il nostro benessere, sia sociale che ‘economico’ e di soddisfazione.

Il panettiere, il giornalaio, l’ottico, il negozio dentro l’angolo diventerebbero ancora più importanti e parte di noi come persone. Si, ci sono i quartieri adesso, ma a meno che non si viva ‘in centro’ nei nostri quartieri mancano cose, mentre nel nuovo schema urbano tutto quello che ci serve dovrebbe essere contenuto in quel quarto d’ora. Noi siamo contenuti in quel quarto d’ora. Una tribù allargata, alla quale scegliamo di appartenere perché ‘è fatta come piace a noi’, da sostenere e proteggere perché ci sostiene e protegge.

È idea che ancora viene vista come utopica, da far finire nel paniere delle altre utopie urbane, dal quadrilatero di Owen, o la ‘garden city’ di Howard, che però è stata applicata a quartieri – Hampstead Heath a Londra, o anche il nostro Monte Sacro a Roma – che mette la città da quindici minuti nel reame del possibile. Come il concetto di ‘kolonihave’ – una comunità all’interno della città – tipico delle pianificazioni urbane danesi.

Insomma, ci sono segnali che ci spingono a un’idea qualcosa di simile a una possibilità concreta. Immaginate solo che cosa può essere l’effetto trasformativo sulla stessa idea di retail: prossimità, rilevanza, conoscenza ‘atomica’ del cliente, ma anche revisione profonda dei piani di business, riorganizzazione spaziale del negozio, radicalizzazione del concetto di ‘esperienza’.

Ma prima parlavamo di cambiamenti dei comportamenti della clientela, impatto del digitale, pandemia, perché adesso la città da quindici minuti? Perché mette al centro l’essere umano e i suoi bisogni, di comunità, soddisfazione sociale, sicurezza. Oggi il ‘retail’, il negozio, più che pensare alla città da quindici minuti pensa alla propria sopravvivenza. Confcommercio vede una riduzione del ‘negozio’ del 15% proprio nei centri storici, ha visto la chiusura di 77.000 esercizi in neanche dieci anni, e con pandemia e lockdown anche chi pensava di essere intoccabile è stato toccato, e più di tutti sono stati colpiti i negozi e le catene che vivevano a metà strada, tra lusso e risparmio, senza identità precisa ma solo vivaci in quella terra di mezzo popolata da ‘vorrei ma non posso’.

La pandemia ha dato senso agli estremi, e ha sottolineato l’importanza di essere ‘rilevanti’. Ho usato questo termine più volte, spieghiamolo: “Il fatto, la caratteristica di essere rilevante, cioè di notevole importanza o anche gravità, soprattutto riguardo a determinati fini”. Traduco: avere senso, nel nostro caso e momento storico per un cliente confuso, impaurito, deprivato di potere d’acquisto e futuro.

Proviamo a mettere tutto insieme: sono cambiati i comportamenti e le priorità d’acquisto dei clienti, aumentato il livello di percezione di ‘sicuro e insicuro’, aumento vertiginoso delle transazioni online che – a loro volta – ‘educano’ i consumatori a scelte infinite, soddisfazione immediata a discapito dell’esperienza sensoriale d’acquisto, le città che tornano – in vario modo – a sostenere l’idea di comunità locale e il policentrismo dei servizi. Il significato: quello che pensavo di sapere del mio mercato e del modo di ‘essere a mercato’ per lo meno deve essere rianalizzato e confrontato con il presente e concetti nuovi. Ho sentito parlare di ‘retailtainment’.

Il retail che diventa esperienza nuova, immersiva e multi-servizio per clienti sì preoccupati nell’era della pandemia ma anche guastati dal proliferare di alternative immediatamente fruibili. Il negozio che diventa quasi una piattaforma multimediale ed estensione dell’online prima che un ‘distributore’ di beni o servizi – alla fine anche Redbull sostiene di essere una società di media che incidentalmente produce anche bevande – dove tecnologia e sartorialità ‘come nella migliore tradizione italiana’ convivono se non si sposano per creare un linguaggio ed una liturgia di contatto e gestione del cliente diverse.

Perché come clienti abbiamo un livello di attenzione nullo ed un livello di fedeltà al marchio basso, a meno che – appunto – non sia sempre più rilevante, non in assoluto ma in quel momento, hic et nunc velocizzato a 5G. E la città da quindici minuti? Per adesso è solo un pungolo, una serie di suggestioni che però ci portano a pensare al retail che consegna dal negozio a casa in dieci minuti, al negozio che condivide magazzini di zona in partenariato con altri retailer, che massimizza i suoi spazi con esperienze integrative del suo core business che permettono di conoscere meglio e più approfonditamente quel cliente che è lì, con noi e non solo per noi.

È forse il ritorno ad una versione del ‘esco a fare shopping’ che pensavamo trascorsa con il trascorrere del tempo e l’incalzare dei telefonini maxischermo, ma che alla fine è sempre stata lì, nel nostro modo di essere ‘umani’ e desiderosi di essere coccolati e piacevolmente distratti mentre arriva il futuro.

Alessandro Lorenzelli | DECONSTRUCT